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Persone dall'AfricaPubblicato in "Persone dall'Africa" a cura di Pietro Clemente e Alberto M. Sobrero, Cisu, Roma, 1998, pp. 1-21

 

 

 

 

Contemporaneità ed identità

Materiali per un' etnografia del movimento

 

 

 

Negli ultimi decenni del secolo XX l'etnografia prende le mosse dal fatto ineludibile che gli occidentali non sono i soli ad andarsene in giro nel mondo moderno (Clifford 1983: 31)

Introduzione

Immigrazione è sinonimo di spostamento, di mobilità; traiettorie che producono incontri e scontri di idee, di culture, di visioni del mondo. Nella prospettiva professionale dell'antropologo si tratta di un inconsueto avvicinamento di chi, per usare un'abusata espressione di Clifford Geertz, "era là", ed ora "è qui", per una sorta di fusione confusa tra "noi" e "loro", tra il "qui" e "l'altrove". L’immigrazione è un venir meno di confini fino a ieri invalicati, un'impraticabilità nell'uso di categorie consuete, un disorientamento e una trasformazione che si è tradotta nella creazione di nuovi campi e sottocampi disciplinari, etichettati, in maniera ancora piuttosto indeterminata, come antropologia urbana, antropologia delle società complesse o semplicemente antropologia del noi. Nuovi percorsi della ricerca contemporanea che hanno condotto la disciplina ad analizzare la sua storia, le proprie pratiche conoscitive, i suoi metodi, oltre che a gestire nuovi e alquanto sfuggenti oggetti di ricerca.

In questa prospettiva Il fenomeno dell’immigrazione testimonia di uno scenario più ampio, attraversato da spostamenti e nomadismi di vario tipo. Movimenti che non interessano soltanto certi uomini e certe donne partiti da alcuni paesi alla ricerca di migliori condizioni di vita, ma caratteristiche che connotano la contemporaneità nel suo insieme, un mondo in cui, ci piaccia o no, siamo tutti coinvolti.

James Clifford, in una veloce sintesi della situazione contemporanea, pone l'immigrazione accanto ad una serie di altri fenomeni anch’essi segnati da dinamiche di dislocazione e da ritmi di veloci spostamenti:

 

"Questo secolo ha visto una straordinaria espressione della mobilità, se si considerano il turismo, il lavoro migratorio, l'immigrazione, la proliferazione urbana. Sempre più numerosi sono coloro la cui "stanzialità" riposa sull'ausilio di mezzi di trasporto di massa, automobili, aeroplani. Popolazioni straniere si sono stabilite nelle città di sei continenti rimescolandosi spesso, però, in modi parziali, specifici. L' "esotico" è sorprendentemente vicino. Per converso, non sembrano esserci sul pianeta luoghi tanto distanti in cui non sia dato avvertire la presenza dei prodotti, dei mezzi di comunicazione di massa e del potere "moderni". La vecchia topografia ed esperienza di viaggio sono esplose. Non è più possibile lasciare il proprio tetto fiduciosi di trovare qualcosa di radicalmente nuovo, un tempo e uno spazio altri. La differenza la si incontra nella più contigua prossimità, il familiare affiora agli estremi della terra» (Clifford 1993, : 26- 27: corsivo mio).

 

 

Occorre chiarirlo da subito: cercare di inserire in una cornice globale di questo genere il tema dell'immigrazione, non significa volersi sottrarre alle molteplici responsabilità civili, amministrative, direttive, che noi cittadini del mondo ricco dobbiamo assumerci nei confronti della presenza straniera, né voler chiudere gli occhi sulle situazioni drammatiche che il fenomeno immigrazione spesso comporta. Nella diversità della posizione che ci è toccata in sorte, tutto ciò significa cercare di ricollocare tale presenza in un contesto comune. In questo contesto le differenze sfumano sullo sfondo dei processi di vita di tutti noi.

Per l'antropologia significa riflettere sulle modalità di produzione della cultura, sui processi di formazione dell'identità, su cosa significhi complessità sociale, su questioni, insomma, che vanno al cuore della disciplina. Alla base di queste considerazioni c'è la consapevolezza di quanto siano mutate le condizioni e l’esperienza della ricerca. Come avverte Fabio Dei:

 

" Non sembra più possibile descrivere oggi i rapporti tra culture in termini di autonomia, pluralità e relatività: la situazione dominante è piuttosto quella della giustapposizione e del sincretismo. E' difficile pensare ancora all'umanità come suddivisa in molteplici isole culturali, distinte come le specie naturali, tendenzialmente autosufficienti - [...] Ci troviamo al contrario, per dirla con G. Vattimo (1989), in una situazione di "comunicazione generalizzata": il mondo contemporaneo vede un enorme aumento della mobilità, un rimescolamento demografico, una circolazione dei prodotti e delle conoscenze senza precedenti. La globalità dei processi economici e politici crea reti di interconnessioni che penetrano fin dentro i contesti locali più periferici. Ciò contribuisce a rendere i confini culturali sempre più confusi e mutevoli; la sistematica ibridazione, l'aggregazione di tratti eterogenei in nuove e instabili configurazioni, è adesso la regola, non più soltanto la patologica distorsione di una presunta originaria purezza delle matrici culturali" (Dei 1993: 68).

 

La mobilità, sia quella reale degli uomini e delle donne, sia quella virtuale delle idee e delle immagini, mette in crisi concetti forti e unitari che fino a tempi recenti hanno indirizzato la ricerca.

 

Etnia, cultura, società, identità assumono nuovi profili, nuove sfumature sotto il fuoco incrociato della mobilità generalizzata e della ristrutturazione globale dell'economia e della cultura. Le categorie di lettura sono deboli per capire le nuove storie di vita. Per dirla con Pietro Clemente: "In questi lavori si evidenzia il rilievo dato alle "rappresentazioni" degli individui e la loro irriducibilità agli scenari analitici consueti" segni "di un paesaggio intellettuale di transizione, che mette alla prova la biodegradabilità di tutte le categorie che ci portiamo in eredità nelle analisi che facciamo, in un’orgia antiriduzionista." (Clemente, 1993: 15-16).

 

 

Un esempio britannico

Un esempio significativo delle problematiche che entrano in gioco nell'analisi di contesti sociali attraversati da esperienze di immigrazione è il recente lavoro condotto dalla ricercatrice britannica Marie Gillespie: Television, Ethnicity and Cultural Change (1995). Il focus dell'indagine riguarda il ruolo dei media nella formazione dell'identità di un gruppo di giovani adolescenti di origine Punjabi del quartiere londinese di Southall. Il Punjabi è una regione della penisola indiana a prevalenza etnica Sikh, percorsa negli ultimi anni da violenti movimenti nazionalistici. Dopo l'assassinio del primo ministro indiano Indira Gandhi nel 1984, il movimento indipendentista sikh a favore della creazione di un "Khalistan" (la mitica patria dei Sikh), è scivolato gradualmente verso il terrorismo e il caos. La comunità Sikh di Southall è la più grande comunità asiatica in Europa. In questa comunità la ricercatrice ha, fra l'altro, insegnato per più di dieci anni come docente di scuola secondaria.

La ricerca, condotta tra il 1989 e il 1990, oltre che a basarsi su di un questionario distribuito a un campione di 333 adolescenti tra i dodici e i diciotto anni, è stata condotta impiegando una metodologia d'indagine strettamente etnografica, una sorta di osservazione densa e continuata, fra partecipazione e interviste in profondità. La Gillespie dichiara subito nel suo testo un certo disagio a trattare i contesti urbani come Southall con la strumentazione abituale delle scienze sociali.

Quella studiata è cultura giovanile, scolastica, nazionale; ma è anche il prodotto della disordinata congerie di messaggi e di modelli diffusi dalle moderne tecnologie della comunicazione: i media.

Un analogo invito agli antropologi ad occuparsi di media è stato espresso dall' antropologo svedese Ulf Hannerz (1992), quasi un pioniere nel delineare i contorni teorici e metodologici di un'antropologia delle società complesse (cfr. Hannerz 1990):

 

"Sarebbe impossibile per gli antropologi far finta che i media non esistono. Poiché una gran parte del flusso di significato nella società passa attraverso i media, lasciarli fuori da ciò che si pretende essere uno studio generale della cultura, sarebbe un’ostinata dimenticanza o un impensabile attaccamento alle routines etnografiche del passato," (Hannerz 1992: 26).

 

I media sono considerati da Hannerz strumenti chiave di diffusione e produzione culturale (machinaries of meaning): radio e televisione, ma anche la vasta gamma dei cosiddetti personal media non sono meno importanti. Apparecchi stereofonici, videoregistratori, telefoni e fax, hanno oggi, come vedremo, un ruolo non trascurabile nella trasmissione e riproduzione a distanza della cultura, anche "a distanza": macchine disseminatrici di significati che l'antropologia non considera ancora in maniera adeguata nel quadro delle sue indagini.

La Gillespie ci offre un etnografia attenta al flusso di messaggi proveniente dai media e all'interazione di tale flusso con il contesto socio-culturale più contiguo ai protagonisti della sua ricerca: gli adolescenti di Southall.

La disponibilità simultanea e l'interazione di queste diverse sorgenti di significati produce un ambiente complesso, la cui gestione si rivela non certo priva di difficoltà, sia per l'attore sociale, che per il ricercatore interessato ad indagarlo.

Per quanto riguarda i soggetti della ricerca, la scelta del periodo adolescenziale, si rivela appropriata per la finalità dell’indagine, focalizzata sui processi di formazione dell'identità e del cambiamento culturale. In una fase di passaggio particolarmente delicata, i ragazzi sono particolarmente sensibili alle influenze esterne al gruppo familiare, e disponibili a fondere le tante sollecitazioni in nuove e originali configurazioni. Non a caso le diverse culture e sottoculture giovanili, apparse sulla scena della cultura di massa dal secondo dopoguerra in poi, hanno presentato spesso forti caratteri di sincretismo e contaminazione tra elementi con origini culturali diverse, producendo soluzioni originali in diversi ambiti d'espressione: negli stili musicali, nella moda e anche nel linguaggio (Cfr. Hebdige, 1983, 1988).

La prospettiva generale da cui prende le mosse l'indagine della Gillespie è quella di considerare la cultura e le identità che le esprimono, non come oggetti statici da descrivere una volta per tutte, ma come processi in continuo divenire, in cui gli attori sociali giocano un ruolo attivo di interpretazione e reinterpratazione continua dei flussi informativi in cui sono immersi e che in un qualche modo contribuiscono a trasformare (cfr. Wolf. E.,1982:387).

Sarà interessante analizzare qui non tanto i risultati di questa ricerca, ma mettere in luce alcune delle risorse teorico-concettuali utilizzate, come tentativo di rinnovamento dei quadri di riferimento della ricerca antropologica alle prese con la specificità degli ambienti urbani attraversati dalle dinamiche della mobilità e dell'immigrazione.

 

Diaspora

Una prima, interessante mossa concettuale che informa tutta la ricerca della Gillespie è di situare lo studio degli adolescenti di origine Punjabi, non all'interno della comunità locale del quartiere, o in qualche altro tipo di ghetto urbano, ma nell'ambito "transnazionale" della cosiddetta diaspora Punjabi.

 

Diaspora è un concetto emergente dell’antropologia contemporanea per sottolineare no tanto lo spostamento più o meno forzoso nello spazio, quanto la consapevolezza, da parte di comunità e popolazioni immigrate, di possedere (e di volere preservare) un’identità distinta da quella del luogo di residenza e legata in qualche modo al luogo di origine (Tedlock ,1996). La coscienza della diaspora implica il riconoscimento da parte dell'attore sociale residente in un certo territorio di appartenere anche ad un luogo di origine lontano e diverso da quello dell’attuale residenza.

L'utilità di una prospettiva "diasporica", nell'analisi di contesti di immigrazione, sta nel rendere in grado il ricercatore di tenere conto dell'eventuale mantenimento di un rapporto, anche solo immaginario, con quel luogo d'origine, dei legami che continuano ad avere significato e a influenzare in un qualche modo la vita nell'attuale luogo di residenza. Il mantenimento di questo "rapporto a distanza" è, in molti casi, reso possibile attraverso le molteplici possibilità offerte dalla vasta gamma delle tecnologie comunicative personali a cui accennavamo: telefono, videocamera, fax che Hannerz (1992: 47) distinguendoli dalla unidirezionalità e dall’impersonalità dei mass media tradizionali (radio e televisione), chiama: media delle forme di vita. Intendendo qui per "forma di vita" una modalità di gestione culturale vicina a quella dell'ideale società tradizionale; un settore di relativa ma stabile ridondanza culturale che comprende le pratiche quotidiane di produzione e riproduzione: ambienti di lavoro, relazioni di vicinato e d'amicizia, che nel caso speciale degli immigrati continuano in forme diverse malgrado le grandi distanze che li separano dai loro congiunti rimasti nella madrepatria o dispersi in qualche altro luogo.

L’indagine della Gillespie mette in evidenza come tra le famiglie di origine Punjabi di Southall le relazioni a distanza hanno rafforzato la coscienza della diaspora, creando una intricata rete di riferimenti oltre i confini della comunità locale del quartiere urbano e della nazione di residenza. L'esperienza di queste relazioni è attivata attraverso due modalità principali spesso intersecate e sovrapposte tra loro: 1) simbolicamente, a livello dell'immaginario, per mezzo della fruizione di film, libri e riviste e altri prodotti culturali provenienti dalla madrepatria, ma anche soltanto continuando a conservare alcune particolari abitudini alimentari; 2) concretamente, in forme dirette e personali, si intrattengono relazioni con amici e parenti rimasti in India o dispersi in qualche altro luogo, scambi di notizie attraverso lettere e telefonate, ma anche, e in maniera crescente, per mezzo di videolettere, prodotte con telecamere leggere per uso domestico; missive animate attraverso cui vengono condivise, da un capo all'altro del mondo, immagini di nascite, fidanzamenti, matrimoni e altri riti di passaggio familiari.

 

Questa eterogenea produzione multimediale, osserva la Gillespie, in parte "fatta in casa" , in parte confezionata da una sorta di nuova industria dell'immaginario etnico, viene utilizzata per una vasta gamma di funzioni sociali che vanno dal familiare al politico. Le relazioni a distanza permettono ad alcune famiglie Punjabi residenti a Londra di mantenere contatti con i loro congiunti rimasti in India ; lontani parenti residenti in California possono familiarizzare con le modalità di vita dei loro congiunti a Southall e viceversa; ne risulta un’interessante forma di video-turismo e di scambio culturale a distanza. Video, libri e film, oltre che nella sfera privata e familiare, vengono utilizzati anche per fini politici e religiosi. Per quanto riguarda la "diaspora Punjabi", attraverso questo tipo di media si va diffondendo la propaganda del movimento Khalistan (la terra dei puri): la campagna per la creazione di una nazione Sikh indipendente nel Punjabi; ma anche videocassette sulla vita dei santi sikh circolano attraverso il globo, per essere utilizzate nell'istruzione e nel culto religioso (Gillespie 1995: 7).

 

Il concetto di diaspora è stato utilizzato da diversi autori per rendere conto della natura di formazioni culturali in cui l'esperienza della mobilità assume un ruolo centrale rispetto all'appartenenza e alla stabilizzazione in un luogo definito. L'aggettivo "diasporico" è stato utilizzato originariamente dal sociologo britannico Paul Gilroy in There ain't no Black in the Union Jack (1987) e ripreso recentemente dallo stesso autore in The Black Atlantic: Modernity and Double Consciousness (1993), il primo un attenta analisi del razzismo in Gran Bretagna, il secondo un'ampia indagine sulla natura della cultura dei blacks in Gran Bretagna.

 

Gilroy in The Black Atlantic usa il termine "diaspora" come parola chiave per comprendere la formazione della cultura dei black, termine quest’ultimo che in Gran Bretagna raggruppa gruppi di origine diversa: asiatici e afro-caraibici, accomunati da una storia comune di movimenti, esclusioni e razzismi. Gilroy individua lo spazio di costruzione dell’identità black al di là dei confini del territorio di origine e di residenza, individuandolo nell’area atlantica nella sua totale estensione : uno spazio percorso dalle diaspore e dagli incontri di africani, americani ed europei che hanno interagito e continuano ad intereagire tra loro.

 

Nella costruzione dell'identità black la collocazione sociale assegnata loro dalla cultura dominante, la ricezione dei riferimenti europei e i tratti derivanti dalle rispettive origini, e il mantenimento di un qualche legame con quell'origine, hanno interagito in modalità diversificate dando vita a forme culturali originali e imprevedibili. Capire la cultura black non significa dunque andare alla ricerca di una qualche supposta essenzialità etnica ma andare a rintracciare i diversi percorsi della diaspora, gli effetti che si sono prodotti e continuano a prodursi "qui" , ma anche "là":

 

"Gli effetti di questi legami e la penetrazione delle forme black nella cultura dominante stanno a significare che è impossibile teorizzare sulla cultura black in Gran Bretagna senza sviluppare una nuova prospettiva sulla cultura britannica nel suo insieme. Bisogna essere capaci di vedere al di là delle manifestazioni contemporanee, nelle lotte culturali che caratterizzarono il periodo imperiale e coloniale. Una intricata rete di connessioni culturali e politiche legano i blacks qui ai blacks che sono da qualche altra parte. Allo stesso tempo, essi sono inseriti nelle relazioni sociali di questo paese. Entrambe le dimensioni devono essere esaminate e le contraddizioni e le continuità che esistono tra questi diversi tipi di legami devono essere portate alla luce" (Gilroy 1987: 154-6).

 

La diaspora consente di seguire, o almeno di pensare, i fili che si stendono tra il qui e il là, le reazioni e le conseguenze che questo allontanamento ha prodotto su entrambi i fronti della diaspora. Gilroy utilizza il concetto in senso estensivo, comprendendo sia le trasformazioni a cui è soggetta la cultura d'arrivo, sia quelle che subisce la cultura di partenza.

Anche Hasting Donnan e Akbar S. Ahmed in una recente raccolta di saggi Islam, Globalization and Postmodernity (1995) utilizzano il concetto di diaspora nel senso indicato da Gilroy, per comprendere gli effetti di trasformazione e le reazioni che le dinamiche di dislocazione e spostamento hanno prodotto nella rappresentazione e nell’espressione dell'identità musulmana, sia per coloro che partono che per coloro che rimangono:

 

"La diaspora ha condotto alla spesso rimarcata ricerca dell'identità e dell'autenticità, in particolare per coloro che si trovano all'estero ma anche, in una certa misura, per quelli che rimangono a casa e si accorgono che la loro cultura, trasportata in nuovi contesti, viene definita e praticata in modi nuovi che spesso disturbano. Le questioni empiriche sollevate dalla diaspora così si appuntano in primo luogo intorno ai problemi dell'identità e della vulnerabilità di dover ridefinire il sé in un mondo che sembra costantemente in movimento. Le identità "con il trattino", ad esempio, come quelle dei brito-musulmani o dei musulmani-americani riflettono e oscurano al tempo stesso la necessaria congiunzione di tracce culturali disparate ricucite insieme, prendendo a prestito i termini di Fischer and Abedi (1990: 253), nell'atto di "ricordare" [re-membering ] e "ricrearsi" [re-creating]" (Ahmed A.S. and H. Donnan,1994:6).

 

In sintesi il concetto di diaspora applicato allo studio dei contesti di immigrazione riesce a rendere conto dei vasti e complessi scenari che vengono a formarsi per effetto delle dinamiche della mobilità generalizzata ; spazi dai confini difficili da definire in cui vengono a formarsi oggi le identità degli attori sociali immigrati e non. Tale strumento analitico permette così di gettare lo sguardo oltre i confini dei contesti locali e nazionali, ponendo la questione dell’identità e della cultura in una prospettiva globale.

 

 

Media transnazionali e trasformazione dello spazio antropologico

Sul versante del globale altre categorie di media sembrano avere un effetto ben diverso rispetto a quelli personali delle "forme di vita" a cui si riferiva Hannerz. Le produzioni delle grandi multinazionali dell’immagine diffuse in tutto il mondo in forme stereotipe e standardizzate, sembrano condurre verso un'omogeneizzazione degli orizzonti e dei modelli culturali di riferimento dell'audience.

Come effetto della doppia azione della pervasività dei prodotti multimediali transnazionali da un lato, e della mobilità umana generalizzata dall’altro, Stuart Hall individua la tendenza che le pratiche di definizione dell’identità vengano a fondarsi sempre meno sulla concretezza dei luoghi, intesi come spazi territoriali d'appartenenza e d'interazione faccia a faccia:

 

"Più la vita sociale diventa mediata dal mercato globale degli stili, dei luoghi e delle immagini, per mezzo dei viaggi internazionali, e dalle immagini delle reti mediatiche globali e dei sistemi di comunicazione, più le identità si staccano, si disaggregano da tempi, luoghi, storie e tradizioni specifiche e appaiono "fluttuanti" " (Hall, 1992 : 303).

 

Ne risulta una pluralizzazione di possibilità di scelta e la trasformazione stessa delle specificità culturali etniche, locali, tradizionali, in elementi di consumo. Si intende qui il termine omogeneità culturale con una sfumatura di significato leggermente diversa da quella che sembra in prima istanza suggerire, non solo una serie identica di elementi culturali uguali e disponibili per tutti, ma l'equivalenza e la facile intercambiabilità di stili e oggetti con origini culturali diverse, utilizzati come semplici merci appunto:

 

"Noi dobbiamo confrontarci con una gamma di identità diverse, ognuna delle quali ci attrae, o meglio attrae diverse parti di noi stessi, tra cui sembra possibile scegliere. E' questa diffusione del consumismo, sia reale che immaginario, che ha contribuito a questo effetto da "supermercato culturale". All'interno del discorso del consumismo globale, le differenze e le distinzioni culturali che fino a quel momento definivano l'identità diventano riducibili ad una sorta di lingua franca o contante globale in cui tutte le tradizioni e le identità specifiche possono essere tradotte. Questo fenomeno è conosciuto come "omogeneizzazione culturale" (ibidem).

 

Thedore Levitt in The Marketing Imagination (1983) ha affrontato il tema della globalizzazione degli elementi etnici. La crescita dei mercati etnici globali, egli suggerisce, è un esempio della standardizzazione globale dei segmenti culturali:

 

"Dappertutto c'è un ristorante cinese, pane arabo, musica country e western, pizza e jazz. La pervasività globale delle forme etniche rappresenta la cosmopolitizzazione della specificità. Dunque, la globalizzazione non significa la fine dei segmenti. Significa piuttosto la loro espansione su di una scala mondiale" (Levitt 1983:30-1, cit. in Robins).

 

La mobilità su scala globale svuota, o almeno impoverisce, la località della significatività che mantiene nei contesti tradizionali, in cui le relazioni personali faccia a faccia prevalgono sui rapporti a distanza. La possibilità di spostarsi velocemente in ogni direzione produce, per dirla con Harvey (1993), una situazione di "compressione spazio temporale" con profonde implicazioni sui sistemi di rappresentazione e sulla formazione dell'identità culturale: i processi sociali si accelerano al punto che il mondo diventa sempre più piccolo, le distanze fisiche scompaiono, e gli avvenimenti accaduti in un luogo possono avere conseguenze immediate e determinanti su altri luoghi e persone molto lontani tra loro.

Anthony Giddens discutendo dei caratteri della "modernità radicale" (termine preferito a "postmodernità" per l'aureola epistemologicamente negativa che quest'ultimo termine ha progressivamente assunto) nel suo recente Le conseguenze della modernità (1994), individua nel concetto di "disaggregazione" (disembedding) una proprietà fondamentale della vita sociale contemporanea. Disaggregazione sta ad indicare la possibilità dei rapporti sociali di staccarsi dai contesti locali e la possibilità di ristrutturarsi su archi di spazio-tempo indefiniti. I diversi tipi di media, le tecnologie telematiche, i mezzi di trasporto ad alta velocità consentono sempre più allo "spazio" di separarsi dal "luogo" inteso come località fisica e reale, favorendo i rapporti tra persone "assenti", localmente distanti da ogni data situazione di interazione faccia a faccia (1994:32). Si produce per l'attore sociale una sorta di allargamento dello spazio significativo, una disgiunzione dell'equazione tradizionale : località = familiarità, che prelude a nuove forme di socializzazione, incluse quelle a "a distanza":

 

"Un aspetto della dislocazione è il nostro essere inseriti in ambienti culturali e informativi globalizzati; ciò significa che i nessi tra familiarità e luogo sono molto meno stretti che in passato. Non è tanto un fenomeno di estraniazione dal locale, quanto uno di integrazione entro "comunità" globalizzate" di esperienza condivisa. " (Giddens 1994: 139).

 

Anche Marc Augé, sul terreno propriamente antropologico, registra una trasformazione della dimensione del "campo" d'indagine delimitato e totalizzante dell’etnografia, in cui attraverso specifiche "pratiche spaziali", per usare un termine di De Certau (1980), hanno preso forma gli oggetti dell’antropologia classica. Nell'epoca contemporanea della "surmodernità" (un altro termine come quello di Giddens "modernità radicale", preferito al temuto "postmoderno" per indicare la contemporaneità) è la "sovrabbondanza spaziale" a mettere in crisi le strategie descrittive dell'antropologia:

 

"L'etnologia si è per lungo tempo preoccupata di ritagliare nel mondo degli spazi significanti, delle società identificate con culture concepite esse stesse come totalità piene: universi di senso all'interno dei quali gli individui e i gruppi che ne sono solo un’espressione si definiscono in rapporto agli stessi criteri, agli stessi valori e alle stesse procedure di interpretazione [...] Basti dire che questa concezione ideologica riflette tanto l'ideologia degli etnologi quanto quella di coloro che essi studiano e che l'esperienza del mondo surmoderno può aiutare gli etnologi a disfarsene o, più precisamente, a misurarne la portata. Essa infatti poggia su un organizzazione dello spazio che lo spazio della modernità sopraffà e relativizza. Anche qui ci si deve intendere: come ci è sembrato che l'intellegibilità del tempo sia più complicata dalla sovrabbondanza di avvenimenti del presente che non minata da una sovversione radicale dei modi prevalenti dell'interpretazione storica, così la concezione dello spazio non è tanto sovvertita dai capovolgimenti in corso (giacché esistono ancora ambiti e territori, nella realtà dei fatti e più ancora in quella delle coscienze e degli immaginari, individuali e collettivi) quanto complicata dalla sovrabbondanza spaziale del presente. Questa si esprime, l'abbiamo visto, in mutamenti di scala, nella moltiplicazione dei riferimenti immaginifici e immaginari e nelle spettacolari accelerazioni dei mezzi di trasporto. Essa comporta modificazioni fisiche considerevoli: concentrazioni urbane, trasferimenti di popolazione e moltiplicazioni di ciò che definiamo "non-luoghi", in opposizione alla nozione sociologica di luogo, associata da Mauss e da tutta una tradizione etnologica a quella della cultura localizzata nel tempo e nello spazio" (Augé 1993: 35-36).

 

Il non-luogo è per Augé uno spazio particolare prodotto dalla moltiplicazione delle dinamiche di mobilità, zone quindi essenzialmente di passaggio, in cui l'identità nelle sue forme storiche, durature e tradizionali non riesce e non può radicarsi, consolidarsi, aree di solo transito: autostrade, aeroporti, stazioni, autogrill, centri commerciali. "Sur-modernità", per Augé, significa soprattutto il proliferare dei non-luoghi, in cui gli attori sociali devono saper escogitare nuove forme di radicamento.

Anche George Marcus, in una sorta di vademecum per un 'etnografia fine secolo (1992), considera la "sovrabbondanza spaziale" causa di una fondamentale trasformazione delle pratiche di delimitazione dell'oggetto e dello spazio di ricerca antropologico. Nelle condizioni della contemporaneità l'identità dell’osservato viene a formarsi in luoghi molteplici che richiedono una strategia etnografica diversificata, multilocale :

 

"L'identità di chiunque, di qualsiasi gruppo è prodotta simultaneamente in molteplici spazi di attività da molti agenti diversi e con diversi scopi. Per chiunque, il luogo dove vive, tra i suoi vicini, amici e parenti o sconosciuti [co-strangers], è soltanto uno dei contesti sociali e forse neanche il più importante in cui viene a formarsi la sua identità. Per un approccio etnografico modernista all'identità ciò che deve essere colto, è questo processo dell'identità dispersa in molti luoghi diversi e di qualità differenti " (Marcus 1992: 315).

 

Anche James Clifford, in un saggio dal titolo eloquente Travelling Cultures (1992) sottolinea il medesimo punto. Soltanto una strategia etnografica multi-locale riuscirà a gestire in maniera adeguata l'indagine delle "culture della diaspora": le storie dei movimenti di popolazione, per esilio o migrazione . Un esempio citato da Clifford di tale strategia è la già citata e "multicentrica" ricerca di Michael Fisher e Mehdi Abedi: Debating Muslim (1990). Sottotitolato "dialoghi culturali tra postmodernità e tradizione", il lavoro (dis)localizza la cultura islamica iraniana in un intreccio cosmopolita di relazioni nazionali e transnazionali. (Clifford, 1992:103).

 

 

Identità tra locale e globale

Che tipo di formazioni identitarie vengono a formarsi in questa inedita articolazione tra le diverse dimensioni del locale e del globale? Hall (1992) delinea tre tendenze generali:

 

  1. l'erosione delle identità nazionali causata dall'omogeneizzazione culturale;
  2. la resistenza o il rafforzamento delle identità locali;

3) l'ibridizzazione come svilupparsi di nuove identità e "nuove etnicità".

 

E' facile comprendere dall'elenco di opzioni fornito da Hall, che l'impatto della globalizzazione culturale ed economica ha effetti molteplici e allo stesso tempo contraddittori sui processi d’identità. L'effetto generale della globalizzazione è quello di rendere l'identità sia dei popoli che dei singoli, più "posizionale, politica, soggetta ai capricci della storia, più congiunturale insomma di quanto non lo fosse nei contesti moderni e premoderni (Hall 1992:309).

Semplificando, il quadro delle opzioni identitarie sembra ridursi essenzialmente a due possibilità: "tradizione" (Tradition) e "traduzione" (Translation), prendendo in prestito due termini coniati da Homi Bhabha (1990). "Tradizione" indica il tentativo di alcuni, gruppi e singoli attori sociali, di restaurare una qualche supposta purezza originaria, cercando di mettere al riparo dai movimenti del contingente certezze e valori che sembrano perdersi. Altri accettano il gioco della storia, i loro incontri con le altre culture, altre esperienze, accettano l’idea che non è possibile tornare indietro, che non c’è un luogo verso cui tornare, che non potranno mai essere quelli di una volta (Robins, 1992, Said, 1989). L’immigrazione è un esperienza con un biglietto di sola andata (Hall,1990). La loro è un opera continua di "Traduzione" .

Soffermiamoci sugli esiti e sui modi in cui si esprime la "tradizione" e in particolare sulla dinamica erosione-resistenza.

L'identità nazionale è sottoposta ad un processo di erosione per effetto della compresenza di altre culture e l'esposizione a flussi culturali transnazionali. E, per altro verso, il rafforzamento e la resistenza delle identità locali può essere considerato come una reazione difesa dei gruppi etnici dominanti che si sentono minacciati dalla presenza di altre culture. Nel Regno Unito, per esempio, questo timore ha prodotto una riaffermazione della retorica dell'Englishness nel periodo tatcheriano dai primi anni ’80 in poi.

Questa reazione di chiusura e difesa dei gruppi dominanti nazionali si collega spesso a una strategica e spesso inevitabile ritirata verso un'identità di resistenza delle minoranze, come risposta al razzismo culturale e all'esclusione. Queste strategie includono spesso una re-identificazione con le culture di origine e la costruzione di forti contro-etnicità; è il caso, per rimanere sempre in Gran Bretagna, del movimento Rastafari, come identificazione simbolica dei giovani di seconda generazione afrocaraibica con i simboli e i motivi di origine africana. Tra l'altro il motivo dominante dei Rastafariani è il ritorno mitico in Africa dalla diaspora iniziata con il trasporto degli schiavi in America nel '500.

Ma anche nel caso delle comunità musulmane si assiste ad un ritorno al tradizionalismo culturale e all'ortodossia religiosa che sfocia nel fondamentalismo e all'intolleranza violenta.

Il "caso Rushdie" sorto intorno al libro i Versi Satanici è un esempio dei problemi che sorgono nel complessi rapporti tra gli esponenti della "Tradizione" e della "Traduzione". Salman Rushdie, scrittore di origine indiana, cosmopolita e di religione musulmana, immigrato a Londra, è divenuto il simbolo "negativo" per una buona parte dei suoi correligionari della corruzione e dello stravolgimento della "Tradizione" venuta a contatto con altre culture e altre tradizioni:

 

"Al centro del romanzo si trova un gruppo di personaggi, per la maggior parte musulmani britannici o individui non particolarmente religiosi di cultura musulmana, immersi proprio nei grandi problemi sorti intorno al libro, problemi di ibridazione e di ghettizzazione, di riconciliare l'antico con il nuovo. Coloro che oggi contestano il romanzo con maggiore vigore sono dell'idea che mischiarsi con una cultura diversa rovini la propria. Io sostengo il contrario. I versi satanici celebra l'ibrido, l'impurità, la commistione, la trasformazione che deriva da nuove e inattese combinazioni fra esseri umani, culture, idee, politica, film e canzoni. si esalta nell'imbardastimento e teme l'assolutismo del puro. Mélange, guazzabuglio, un po' di questo un po' di quello è il modo in cui il nuovo entra nel mondo . E' la grande possibilità che l'emigrazione di massa concede al mondo e io ho cercato di farla mia. I versi satanici sostiene la trasformazione per fusione, il cambiamento per congiunzione. E' un canto d'amore rivolto ai nostri sé imbastarditi" (Rushdie 1994: 431-432).

 

E' però importante saper collocare queste prese di posizione "localistiche" in difesa di una "tradizione" nel contesto dello scenario globale contemporaneo su delineato. La moltiplicazione delle risorse identitarie e dei quadri di riferimento disponibili in un contesto di mobilità generalizzata connotano il ritorno alla tradizione non come un semplice ritorno, ma come una scelta tra opzioni disponibili. Sempre Giddens lega questo ritorno contingente alla tradizione al carattere "riflessivo" della modernità, alla possibilità della scelta tra diverse opzioni ; ma una tradizione scelta, in questo senso, non è già per definizione una tradizione quando afferma che:

 

"La tradizione giustificata è infatti una tradizione mistificata che trae la propria identità solo dalla riflessività del moderno [...] .Il fondamentalismo può emergere in ogni ambito della vita sociale in cui si debba a un certo punto non semplicemente accettare, adeguarsi alla tradizione, ma, eventualmente sceglierla" (Giddens 1994 : 46).

 

 

Congiunture, disgiunture e nazionalismi in teleselezione

Un modello particolarmente elaborato che cerca di rendere conto delle configurazioni identitarie nella contemporaneità è quello proposto da Arjun Appadurai (1990), ben presente sullo sfondo della ricerca della Gillespie. Non privo di una sua suggestione almeno, come vedremo, nell'originale enunciazione terminologica, la proposta di Appadurai ha avuto un discreto successo nella letteratura più recente (Lash e Friedman 1992, Ahmed e Donnan 1994).

Appadurai individua cinque dimensioni nell'economia culturale globale, cinque flussi caratterizzati da movimento e instabilità: 1) ethnoscapes, 2) mediascapes, 3) technoscapes, 4) finanscapes; 5) ideoscapes, rispettivamente il movimento degli uomini, del denaro delle tecnologie, delle immagini e delle idee.

Ma ciò che interessa ad Appadurai non è tanto l'analisi oggettiva, quantitativa di questi flussi, quanto le modalità in cui gli attori sociali ne fanno esperienza. Di qui la spiegazione del suffisso scape, ad indicare che non si tratta appunto di relazioni oggettive, ma di costrutti prospettici, determinati dalla posizione storica e politica, degli attori e dei gruppi sociali considerati: stati-nazioni, comunità diasporiche, gruppi sub-nazionali e movimenti, ma anche entità sociali minori come villaggi, vicinati e famiglie.

Appadurai usa il termine "paesaggio" (landscape) per indicare il punto di vista particolare che i diversi attori sociali hanno di queste dimensioni, la loro visuale determinata dall'insieme delle collocazioni e delle posizioni che si trovano ad avere rispetto a questi flussi ; la loro visuale viene a costituire il "mondo immaginato" (imagined world) in cui sono immersi e a partire dai quali agiscono. Mondi e non comunità alla Benedict Anderson, per marcare l'estensione dell'immaginario dell'attore sociale al di là dei confini della propria patria. Comunità immaginate è infatti la definizione con cui Benedict Anderson, in un noto libro dal titolo omonimo (1983, trad. it. 1996), sintetizzava la natura immaginativa dello stato-nazione moderno.

In questo prospettiva la parola chiave che guida l'indagine sulle problematiche dell’identità e della contemporaneità, per Appadurai, non è tanto quella di globalizzazione ma "indigenizzazione" ; intendendo con questo termine l’instabile localizzazione di una serie particolare di congiunture e disgiunture tra le diverse dimensioni del flusso globale economico e culturale, formazioni e arrangiamenti su cui a priori non è possibile dir nulla, in mancanza di adeguate e specifiche ricerche di taglio etnografico. Poiché l’identità e l’azione che viene prodotta è il risultato delle complesse configurazioni di aspetti oggettivi e soggettivi, di equilibri che vengono a materializzarsi in pratiche specifiche di azione e costruzione dell'identità. Soltanto la ricerca etnografica focalizzata può rendere conto delle particolari configurazioni che vengono incessantemente costruite e decostruite.

Proprio l'immigrazione e la mobilità in genere, sia reale che virtuale, ha giocato un ruolo importante nella configurazione di mondi immaginati del tutto particolari. La possibilità di separazione delle identità dai luoghi di origine ha prodotto quello che Appadurai ha individuato come il paradosso della questione etnicità oggi :

 

"Gli elementi primordiali (sia del linguaggio, del colore della pelle, di vicinato o di parentela) sono diventati globalizzati. Vale a dire che i sentimenti, la cui più grande forza sta nella loro capacità di trasformare l'intimità in un sentimento politico e fare della località un territorio base per l'identità, sono diventati dispersi su spazi vasti e irregolari, quando i gruppi si spostano e restano pur legati l'un l'altro attraverso le capacità di media sofisticati. Questo non significa negare che tali primordia sono spesso il prodotto di tradizioni inventate (Hobsbawn e Ranger, 1983) o affiliazioni retrospettive, ma sottolineare che a causa dell'azione reciproca instabile e tra loro disgiunta del commercio, dei media, delle politiche nazionali e delle fantasie di consumo, l'etnicità, una volta un genio racchiuso nella bottiglia di un qualche tipo di località (comunque grande) è ora diventata una forza globale, che scivola continuamente nelle crepe che si aprono tra gli stati e le frontiere" (Appadurai, 1990: 306).

 

I fenomeni d’immigrazione creano rapporti particolari tra i pellegrini e la loro madrepatria, che in qualche caso anche Appadurai collega al sorgere dei diversi fondamentalismi che agitano la scena politica contemporanea. Si crea un nuovo mercato dell'immaginario che nasce dal bisogno delle popolazioni sradicate dal loro territorio di un contatto con la madrepatria : mediascapes particolari che possono trasformarsi in violenti ideoscapes : è il caso del già incontrato movimento Khalistan: l'immaginaria nazione dei Sikh:

 

"Naturalmente, queste patrie inventate, che costituiscono i mediascapes dei gruppi deterritorializzati, possono spesso diventare sufficientemente fantastici e unilaterali così da fornire materia per nuovi ideoscapes in cui possono manifestarsi i conflitti etnici. La creazione del "Khalistan", una patria inventata della popolazione Sikh deterritorializzata d'Inghilterra, Canada e Stati Uniti, è un esempio del sanguinoso potenziale di tali mediascapes, quando interagiscono con il colonialismo interno (Hecter, 1974) dello stato nazione" (Appadurai, 1990: 302).

 

Secondo Appadurai, è l’esperienza della deterritorializzazione subita dagli immigrati la chiave principale che apre la via alla formazione di questi violenti immaginari etnici:

 

"In generale la deterritorializzazione è una delle forze centrali del mondo moderno, dal momento che colloca le popolazioni lavorative nei settori della classe bassa delle società relativamente ricche, al tempo stesso si creano sensi di critica esagerata e di attaccamento alle politiche della madrepatria. La deterritorializzazione, sia degli Indu, dei Sikhs, dei Palestinesi o degli Ucraini, è ora al cuore di una varietà di fondamentalismi globali, incluso quello Islamico e quello Hindu. Nel caso Hindu per esempio è chiaro che il movimento oltremare degli Indiani è stato sfruttato da una varietà di interessi sia all'interno che all'esterno dell'India per creare una complicata rete di identificazioni religiose e finanziarie, in cui i problemi della riproduzione culturale degli Hindu all'estero sono legati alle politiche del fondamentalismo Hindu in patria » . (cit : 301).

 

Anche Anderson in un recente intervento sui nazionalismi contemporanei parla dell'emergere un nuovo "curioso" tipo di nazionalista, quello "in teleselezione":

 

"[...] negli ultimi 150 anni, le vaste migrazioni prodotte dal mercato, dalle guerre e dall'oppressione hanno profondamente incrinato quel che una volta sembrava una coincidenza "naturale" tra sentimento nazionale e risiedere per tutta la vita nella terra madre, o terra padre. In questo processo sono state generate etnicità che seguono i nazionalismi nell'ordine storico, ma che oggi sono collegate ai nazionalismi in modi complessi e spesso esplosivi. Ecco perché alcuni dei più duri "nazionalisti irlandesi" dell'Ira vivono le loro vite di irlandesi negli Stati Uniti. Lo stesso succede per molti ucraini residenti a Toronto, tamil a Melbourne, giamaicani a Londra, croati a Sidney, ebrei a New York, vietnamiti a Los Angeles e turchi a Berlino. Può ben essere che ci troviamo di fronte a un nuovo tipo di nazionalista: "il nazionalista in teleselezione si potrebbe chiamarlo" (Anderson 1996: 216).

 

 

 

Cosmopolitismi e nuove etnicità

Ma veniamo alla terza possibilità prospettata da Hall: l'ibridizzazione e l'affermarsi di nuove identità di tipo translated.

 

"... che tagliano e intersecano i confini naturali, composte da coloro che sono stati dispersi per sempre dalla loro madrepatria. Queste persone continuano a mantenere forti legami con i loro luoghi d'origine e con le loro tradizioni, ma non hanno più l'illusione di ritornare al passato. Sono obbligati a confrontarsi con le nuove culture in cui abitano, senza semplicemente assimilarsi ad esse e perdere completamente le loro identità . Portano su di sé le tracce di culture particolari, tradizioni, linguaggi dalle quali sono state modellati. La differenza è che loro non saranno mai più uniti come una volta, perché sono il prodotto di storie molteplici e culture interlacciate tra loro, appartengono ad una e allo stesso tempo a molte 'patrie' ( ed a nessuna in particolare') ". (Hall 1992: 310.

 

La traduzione di quanto Hall enuncia sul piano teorico è tutta nella reale esperienza che esprimono queste parole di Salman Rushdie, rivolte ai suoi colleghi scrittori, indiani e immigrati come lui stesso:

 

" Vorrei suggerire che gli scrittori indiani in Inghilterra hanno accesso a una seconda tradizione, del tutto separata dalla loro storia razziale: la cultura e la filosofia politica del fenomeno dell'emigrazione, dello sradicamento, della vita in una minoranza. Abbiamo tutto il diritto di sentirci i discendenti degli ugonotti, degli irlandesi, degli ebrei; il passato al quale apparteniamo è inglese, la storia della Gran Bretagna degli immigrati. Swift, Conrad, Marx sono tanti nostri antenati letterari quanto Tagore o Ram Mohan Roy.[...] Ma noi siamo irrinunciabilmente scrittori internazionali in un'epoca nella quale il romanzo è come non mai una forma internazionale (uno scrittore come Borges accenna all'influenza di Robert Louis Stevenson sulla propria opera; Heinrich Boll riconosce l'influsso della letteratura irlandese; ovunque si vede una fertilizzazione trasversale); ed è forse una delle libertà più piacevoli per un emigrato letterario quella di essere in grado di scegliere i propri avi. Fra i miei - scelti per metà consciamente, per metà no - si contano Gogol, Cervantes, Kafka, Melville, Machado de Assis; un albero genealogico poliglotta, nei confronti del quale mi misuro e al quale sarei lieto di appartenere." (Rushdie 1991: 25-26).

 

Tornando al nostro esempio britannico dal quale eravamo partiti, anche la Gillespie utilizza per descrivere le pratiche identitarie messe in atto dagli adolescenti Punjabi-Londoners di Southall il termine translated, considerandolo un'utile aggiunta al vocabolario delle scienze sociali, poiché:

 

" Crescere in Southall significa imparare a tradurre sia in senso letterale - quando i giovani traducono le notizie della televisione britannica per i loro genitori, che metaforicamente, quando devono acquisire le capacità per negoziare tra i vari ambienti, tra le varie culture, tra le varie posizioni presenti all'interno di ognuno di questi contesti. " (Gillespe 1995: 208).

 

Uno dei dati più interessanti della survey di Southall ha rivelato che i notiziari sono il genere televisivo più discusso tra gli adolescenti e i loro genitori. Una sorta di ponte tra giovani e vecchi, in cui la capacità dei figli di discutere e tradurre le notizie per i genitori è legata all’acquisizione di un certo status di rispettabilità, vissuto dai ragazzi come un segno di crescita.

A Southall una buona parte del processo di ridefinizione dell'identità è attuata nella ricezione e nell'appropriazione della TV. I media nelle loro diverse versioni nazionali, transnazionali e diasporici offrono la rappresentazione di molte culture, stili, e opzioni che sono disponibili nelle case di Southall, fornendo una gamma di scelta per l'identificazione simbolica.

In alcuni casi questa gamma è avvertita come conflittuale, come nel caso recente della guerra del golfo, i giovani si trovano in difficoltà e in dolorosi dilemmi nel prendere una posizione. Questo è il tipo di contesto in cui la riflessione sulla propria identità diventa sia un inevitabile conseguenza sia un esercizio necessario:

 

« La Guerra del Golfo e altri eventi locali, nazionali e internazionali, mediati da canali di informazione multipli e diversi, vengono a contatto in vari modi con la vita di Southall. I dibattiti prodotti dalle notizie di tali eventi e le diverse interpretazioni su di esse [...].spingono gli adolescenti a diventare fortemente consapevoli della varietà di posizioni che sono obbligati, invitati o capaci di prendere, nei diversi contesti : come membri di comunità diasporiche internamente diverse e come cittadini britannici. Hanno costantemente il bisogno di domandarsi ‘Chi sono io ?’, ‘Da quale posizione parlo ?’ e ‘ Chi sta parlando per me ?’ così come ‘ Chi mi sta parlando ?’. e loro rispondono a queste domande in maniera differente, spesso ambivalente a seconda delle circostanze in cui tali domande vengono espresse» (Gillespie, 1995 :141)

 

La ricerca empirica della Gillespie, conclude che il consumo dei media da parte dei giovani adolescenti sviluppa un attitudine cosmopolita nel senso in cui tale termine è stato ridefinito da Hannerz ; la grande maggioranza dei giovani di Southall non aspira a rafforzare l'appartenenza e i caratteri del proprio gruppo etnico di origine, ma a trascenderla piuttosto in un modalità che viene definita appunto come "cosmpolita":

 

"Il cosmopolita è una creatura dell'organizzazione della diversità [...] cosmopolitismo comporta una certa posizione metaculturale. C'è prima di tutto, un desiderio di avere a che fare con l'Altro, un atteggiamento intellettuale ed estetico di apertura verso esperienze culturali divergenti. Non ci possono essere cosmopoliti senza locali, rappresentanti di culture territoriali più circoscritte. Ma a parte questo orientamento elogiativo, il cosmopolitismo tende ad essere una questione di competenza, sia di tipo generale che più specializzato. C'è un'abilità personale a farsi strada nell'altra cultura, attraverso l'ascolto, il guardare, l'intuire, e il riflettere, e c'è una competenza nello stretto senso del termine, una capacità innata nel manovrare in maniera più o meno esperta particolari sistemi di significato." (Hannerz :252-253) .

 

In questo quadro si è tentato una considerazione diversa del concetto di etnicità.

La Gillespie rivendica a questo termine malgrado le contraddizioni e i paradossi a cui va incontro, una centralità per la comprensione delle tendenze culturali contemporanee e delle trasformazioni sociali in atto. Prendendo le mosse da Hall, argomenta che l'importanza dell'etnicità sta nel suo attestare che la soggettività e l'identità di ognuno proviene da una storia particolare, da un linguaggio e da una cultura, nel fatto che ogni discorso che viene enunciato lo è da una posizione particolare, e che tutta la conoscenza è quindi contestuale (Hall:1990).

L'etnicità, intesa come origine, è dunque centrale a tutte le forme di identità, ma non costituisce un'identità totale, esclusiva. Molti altri livelli di differenza sono ugualmente importanti: sessuali, di classe, età, cultura, certamente anche le differenze etniche e 'razziali', ma queste ultime non sono esclusive, né sussumono necessariamente le altre. Questo riconoscimento rende insensate tutte le forme di essenzialismo e determinismo etnico razziale.

Un esempio significativo di questo discorso è proprio l'esperienza della cultura black emersa in Gran Bretagna tra la fine degli anni ‘60 negli anni '70. Riflettendo su alcune produzioni cinematografiche provenienti dall'ambiente culturale black Hall ha proposto una concettualizzazione delle nuove etnicità (Hall : 1992). L’esempio proposto da Hall è il film My beautiful laundrette, tratto dalla sceneggiatura dello scrittore brito-pakistano Hanif Kureishi, in cui viene descritta la storia tra due giovani omosessuali un black pakistano e un bianco inglese, in cui è possibile leggere l’avvio, a parere di Hall, di un nuovo percorso nelle politiche di rappresentazione delle minoranze etniche, mettendo in crisi l'essenzialità black in considerazione di nuovi e più complessi livelli di differenza ; nel caso di Kureishi quello dell’identità sessuale.

 

Blacks, come abbiamo visto, fornisce un punto di identificazione per diverse minoranze, presenti sul suolo inglese: afro-caraibici e asiatici in primo luogo ma anche africani. Ciò che queste comunità hanno in comune e che viene rappresentato attraverso il termine black, non è dunque la loro uguaglianza culturale, etnica, linguistica o fisica, ma la loro posizione all’interno della società ad essere simile è la loro esclusione, il trattamento che viene loro riservato dalla cultura dominante.

La nozione di black è stata estremamente importante nelle lotte anti-razziste degli anni ‘70. l’idea che persone appartenenti a società e culture diverse, arrivate in Gran Bretagna tra gli anni Cinquanta e Sessanta come parte di quell’enorme ondata di migrazione proveniente dai Caraibi, dall’Africa, dall’India, dal Pakistan, dal Bangladesh, si identificassero tutti politicamente come Black. (Hall, 1991:55). Comunque, malgrado gli sforzi fatti per dare all'identità black un contenuto unificante, essa continua ad esistere come una vasta gamma di differenze sia etniche, di genere e di classe, che cominciano a voler essere riconosciute. Black è così un esempio, non soltanto politico del carattere delle nuove identità, della loro natura posizionale all'interno della società, la formazione e il carattere dell'identità black dimostra il modo in cui identità e differenza sono inestricabilmente articolate e cucite insieme, in modo che l'una non nega l’altra:

 

"L'identità va considerata come un campo di antagonismi, come un gioco di posizionamento continuo, c'è sempre una politica dell'identità una politica di posizioni. L'identità va vista come una produzione che non è mai completa, sempre in processo e sempre costituita all'interno della rappresentazione mai all'esterno." (Hall, 1990: 226).

 

 

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Pubblicato in "Persone dall'Africa" a cura di Pietro Clemente e Alberto M. Sobrero, Cisu, Roma, 1998, pp. 1 -21


 

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